Con una fatica immane riuscii ad aprire gli occhi.
Ci misi un po’ prima di riabituarmi alla luce, ma poco a poco le sagome sfocate che mi attorniavano presero forma. Ero disteso, coperto da un lenzuolo bianco. Provai ad alzare la testa per cogliere qualche particolare in più della mia posizione, ma la sentivo pesante e dolorante. Mi tastai la tempia destra: avevo un taglio profondo e quelli che sembravano numerosi punti di sutura. Mi trovavo in una piccola stanzetta dalle pareti bianche: alla mia destra una serie di monitor e macchinari tenevano sotto controllo il battito cardiaco. Alla mia sinistra c’era una piccola finestrella sporca, sotto alla quale si susseguivano tre scaffali di legno scuro colmi di medicine.
Che palle, ero finito all’ospedale.
Cercai di concentrarmi e di capire cosa fosse successo. Probabilmente i sintomi che mi avevano perseguitato per tutta la settimana – anche se non sapevo se fosse ancora domenica – si erano aggravati a tal punto che qualcuno mi aveva portato lì. Ma come me l’ero procurata la ferita? Un’immagine fugace, un flash mi attraversò la memoria: due luci, due fari ed il viso pallido di un uomo che se la rideva di gusto.
Merda, mi avevano investito.
Socchiusi gli occhi e mi accorsi che, a parte la testa e qualche doloretto sparso, non avvertivo i postumi di un incidente. No, doveva essere successo qualcos’altro. Qualcosa che mi era sfuggito, forse di cui nemmeno mi ero accorto. I ricordi erano troppo vaghi affinché potessi ricostruire la scena. Tuttavia, per quanto mi sforzassi, non mi ricordavo di aver sentito la carrozzeria della macchina sulla mia pelle, di aver rimbalzato sul cofano o cose del genere. Forse era normale, non ero mai stato investito prima d’ora e non sapevo cosa si provasse. Ricordavo solo l’eccitazione, la frazione di secondo durante la quale il vento mi aveva attraversato il corpo prima che sbattessi la testa sull’asfalto.
Improvvisamente mi si rovesciò lo stomaco e mi ritrovai il cuore sotto la lingua.
No, era impossibile. IM-POS-SI-BI-LE. Non era umano. Non era pensabile.
Ma allora per quale motivo, provavo l’indescrivibile sensazione di aver volato?
Un rumore sordo di passi e il cigolio della porta che si apriva, annunciarono l’arrivo di qualcuno. Mi tirai un po’ su e vidi un uomo col camice bianco avanzare verso di me: era di media statura, robusto, un paio di occhiali rettangolari sul naso aquilino e pochi capelli rossicci in testa. Lo riconobbi subito: Lucio Malatesta, il medico migliore di Vòlatri – anzi, d’Italia – ed uno dei più richiesti all’estero, tant’è che passava la maggior parte della sua vita in America, lasciando Francesco da solo nella loro villa megagalattica. Era stata una fortuna trovarlo in città.
«Noto con piacere che ti sei svegliato» mi disse ammiccando. «Allora, come ti senti?»
«Solo un po’ di mal di testa» risposi, abbozzando un sorriso anch’io.
«È stato un vero miracolo, Rob» esclamò appoggiandosi al mio letto. «Te la sei cavata con poco più che un taglio in testa e qualche escoriazione. Non so se te ne rendi conto: sei stato investito». In effetti no, non me ne rendevo conto, ma lasciai correre. Malatesta sospirò e poi ricominciò a parlare.
«Davvero non riesco a capire» disse in tono grave, «quali siano state le dinamiche dell’incidente. Benché la macchina andasse a velocità spedita, non ti ha nemmeno sfiorato. Tu sei finito oltre la vettura un istante prima che t’investisse. È stato l’impatto con l’asfalto a provocarti la ferita in testa».
Mi fissò con aria interrogativa, come se si aspettasse una risposta da me. Purtroppo, però, io ero più confuso di lui. Dentro di me sentivo che c’era un’unica risposta, ma sapevo che quella risposta era quanto di più assurdo ed impossibile si potesse immaginare. E comunque, nessuno mi avrebbe mai creduto.
«Non ricordi proprio niente?» mi incalzò Lucio.
«Sinceramente no». Era una bugia parziale. Che cosa avrei dovuto raccontargli? «Solo i fari della macchina che sono spuntati all’improvviso».
Lui aggrottò le sopracciglia, visibilmente insoddisfatto dalla mia risposta.
«Dottor Malatesta» mormorai, «chi è stato? Insomma, chi è che guidava la macchina?».
In quel momento la porta cigolò di nuovo ed entrarono due uomini.
«Sono stato io!» esclamò la vocina sottile del primo individuo, come fosse quella di un bambino che esultava dopo una vittoria. Era Giò Porchetta, inquietante ed angosciante come al solito. Sul suo viso sfigurato c’era dipinta un’espressione divertita, gioiosa, orrendamente beffarda. Era vestito come al solito – grembiule bianco sporco di sangue – e le due ciocche brizzolate di capelli erano unte e arruffate.
«Cos’è, ti diverte aver quasi ammazzato mio figlio?» ruggì la voce del secondo uomo. Mio padre, scansò con forza il macellaio e raggiunse il mio letto.
«Santo cielo Rob, ci hai fatto prendere un accidenti!» mugolò angosciato. Mi accarezzò i capelli, soffermandosi sul taglio suturato. «Guarda cosa diavolo ti ha combinato quel pazzoide...».
«Sto bene papà…» sussurrai, ma la voce squillante e fastidiosa di Giò Porchetta coprì la mia.
«Suvvia Bettinelli, non è poi tuta questa tragedia, no?!» disse allegro. «Giuro che ha fatto tutto da solo!».
La testa di mio padre scattò verso Porchetta, gli occhi che quasi gli uscivano dalle orbite.
«Non capisci la gravità della situazione?» abbaiò. «Potevi fargli del male sul serio, forse ucciderlo, e te ne stai qui a ridere come uno psicopatico? Mio figlio non è uno dei tuoi patetici animali da macello!».
«Mai detto questo!» sorrise Giò. «Tutt’altro, dopo quanto è accaduto oggi credo che sia piuttosto… ecco, come dire… speciale…».
«Spe-speciale?» balbettai, sconcertato. Giò Porchetta era sempre stato un uomo inusuale, raccapricciante e sinistro, ma adesso proprio non riuscivo a capirlo. Come poteva prendere così alla leggera il fatto di avermi quasi spedito all’altro mondo? L’immagine del suo viso sconvolto dalle risate dietro il parabrezza, un attimo prima che mi investisse, riaffiorò dalla mia memoria e per un momento provai puro terrore.
E se avesse davvero provato a farmi fuori? Mi accorsi che mi era venuta la pelle d’oca, ma mi dissi che non c’era motivo di preoccuparsi. In fondo, era un macellaio, non un assassino e io non gli avevo fatto assolutamente niente per meritarmi una fine del genere. Anzi, avevo sempre tentato di incontrarlo il meno possibile, limitando le occasioni di incrociarlo a quelle rare volte in cui andavo nella sua macelleria in Piazza.
«Perché non capisci la gravità dell’accaduto?», stava urlando mio padre, a pochi centimetri dal macellaio che ancora se la rideva sotto i baffi. «Andavi a ottanta all’ora su una strada residenziale dove il limite massimo è di trenta!».
«Questo è vero» ammise Giò, «ma le strade mi sembra siano fatte per le macchine, non per i pedoni e tuo figlio si trovava proprio in mezzo alla strada».
«Stavo male» mi affrettai a spiegare, perché mio padre mi aveva lanciato un’occhiataccia. «Stavo molto male. Non riuscivo nemmeno a capire cosa stessi facendo o dove stessi andando».
«Precisamente» mi apostrofò Giò.
«E sei uscito in quello stato?» intervenne Lucio con una nota di rimprovero.
«Gliel’avevamo detto di restare in camera sua!» sbottò mio padre, questa volta riservando la sua rabbia a me.
«Sapete» riprese la parola Porchetta, «era come se il ragazzo fosse sotto l’effetto di qualche droga».
«Che cosa?» gridai io, allibito, ma fui costretto a calmarmi perché la ferita aveva cominciato a pulsare. «Io non ero sotto l’effetto di 'qualche droga'! Per chi diavolo mi avete preso?».
«Mio figlio ha perfettamente ragione!» esclamò mio padre, con una punta di orgoglio. «Non ti permetto di dire cose di questo genere su di lui o di mettere in giro tali assurdità!».
«Era solo un esempio!» biascicò Porchetta, allontanandosi dallo sguardo minaccioso di mio padre.
Socchiusi gli occhi, il mal di testa che ricominciava a farsi più intenso.
«Direi che potete continuare la vostra discussione fuori di qui» sentenziò Lucio. Si avvicinò a mio padre e a Giò Porchetta e li spinse verso la porta... [continua...]
venerdì 29 maggio 2009
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